martedì 20 novembre 2018

FAR CAUSA ALLE BANCHE: QUEL CHE C’É DA SAPERE

Analisi di un settore in cui sono in molti a parlare, ma pochissimi sanno: e sanno fare bene davvero.

Il mercato del debito, in Italia, ha assunto proporzioni rilevanti. Di certo, la crisi in atto favorisce tale crescita.
Al suo interno, un posto di tutto rispetto spetta all’anatocismo e all’usura bancaria, ovvero tutte le indebite competenze e altrettante somme che banche, istituti di credito e finanziarie in genere applicano in maniera indiretta e illecita sui conti correnti degli ignari italiani, prelevandole a loro insaputa.
Un tempo appannaggio esclusivo dell’associazionismo di stampo spontaneo e consumeristico, oggi tal fenomeno, data anche l’amplissima diffusione che esso tuttora conosce (sono note a tutti da tempo le tristi vicende delle banche italiane), è diventato materia d’interesse economico e di studio da parte di molteplici operatori del settore, strutturati però in forma di veri e propri soggetti di mercato: che, tradotto, vuol dire imprese che producono occupazione e gettito fiscale.
Far causa alle banche è possibile, eccome.
Anche perché non si capisce per qual motivo, se a sbagliare è un cittadino, esso sia giustamente tenuto a pagare di tasca propria e a risarcire. 
Se, invece, a non rispettare la legge e i patti stipulati sono le banche, il più delle volte la fanno franca: e, se falliscono, ci pensano i soldi degli italiani a mantenerle in vita.
Giusto che la banca persegua le vie legali se un cittadino non paga il mutuo o vada fuori fido o attui comportamenti scorretti e arbitrari: ma altrettanto lo è il rivalersi contro la banca, se quest’ultima incassa per anni dal correntista inconsapevole cifre non dovute.
Far causa alle banche è una legittima possibilità - cui ricorrere soltanto qualora siano oggettivamente accertati i presupposti per mettere in discussione la liceità dell’operato del proprio istituto di credito - per tutti coloro che lavorano onestamente, che pagano puntualmente e senza batter ciglio commissioni contrattuali per la tenuta e la normale routine della loro operatività.
Ma far causa alle banche significa avere il coraggio di guardare dritto negli occhi i poteri forti e le loro frequenti, sporche e aberranti collusioni. 
Le stesse che determinano, anche in caso di mala gestio, lo squallido e nauseabondo giro di poltrone per cui, attraverso il ‘sofisticato’ meccanismo delle promozioni, un qualsiasi incapace autore di danni ingenti all’economia di un istituto di credito (clienti inclusi, ahimé) viene assegnato ad altra insegna – e, per lo più, anche con mansione superiore -, ove magari ricoprirà anche un incarico al vertice ben più importante, continuando indisturbato a compiere sfaceli e sfracelli. 
Alla faccia di chi i soldi li risparmia da una vita, e altrettanto duramente li suda e accantona onorando tasse, esigenze personali, impegni e scadenze quotidiane e così via.
Ma far causa alle banche vuol dire anche muovere milioni di euro, spostandoli semplicemente dal piatto più ricco a quello più povero della bilancia degli italiani.
Si capisce dunque, alla luce di quanto sinora esposto, come l’enorme posta in gioco (e tutto ciò che attorno a essa gravita) divenga sostanza più che appetibile per tutta una serie di realtà che vorrebbero spartirsi la torta.
La partita si gioca, spesso, anche sul piano sottile e altrettanto delicato di un’informazione strumentale che vede in primo piano, quali attori dominanti della scena, testate giornalistiche e portali di varia natura tutti professantisi profeti ed esperti in materia economica: che fioriscono qua e là sul web come funghi, animati e fondati per lo più da professionisti o presunti tali del settore che, pretendendo di avere ciascuno il dogma in merito, si sfidano a colpi di pareri, alle volte anche in veste di contributors di organi di informazione.
Ma c’è di più. Oggi, in diversi ambiti che vanno dal cibo, alla moda, alle tendenze, ma anche al denaro e dintorni, alcuni portali sono diventati quasi degli oracoli di Delfi, senza il cui parere o indicazione di direzione diventa impossibile fare anche una passeggiata al gabinetto senza rischiare invece di finire in cucina. E gli italiani-pecore, che fanno? Abboccano, ma certo!
Non si capisce perché, in questo Paese, chi fa informazione deve giustamente rispondere a tutta una serie di doverosi e seri requisiti che vanno dall’iscrizione all’Ordine dei Giornalisti fino alla registrazione di una testata propriamente detta in Tribunale.
Mentre, i tanti che espongono pareri e pensieri liberamente semplicemente acquistando un dominio in Internet in realtà possono pensare di dire ciò che vogliono e credono giusto senza controllo alcuno, come invece spesso avviene nel primo caso.
La web reputation, oggi, ha assunto un ruolo superiore a quello della fedina penale: per il solo fatto che è pubblica e liberamente accessibile attraverso il più comune dei motori di ricerca, si comprende bene come alcune forme di accanimento mediatico servano in realtà più per alterare le cosiddette leggi di mercato, inquinare il buon nome di questo o quello, attirare e spostare strategicamente l’attenzione di potenziali clienti, che non a far del bene in buona fede a un lettore attento in cerca di contenuti utili con i quali dare compiutamente risposta a un’esigenza contingente: quale quella, legittima e sacrosanta, di chiedere alla propria banca se tutti i soldi che ha incassato sono leciti, giusti e dovuti. Insomma, spesso si confonde lo schermo di un pc per un’aula di giustizia.
Per prima in Italia, dal 2010 a oggi, la ‘SDL Centrostudi SPA’ fondata da Serafino Di Loreto ha avuto il gravoso e ardito compito di fare da apripista alla tutela degli interessi economici di famiglie, cittadini, consumatori, piccoli e grandi imprenditori che, sino a quel momento, hanno sempre giocato una partita impari nel dialogo con banche, Fisco iniquo e istituti di credito: partita che oggi, grazie anche alla case history dell’azienda bresciana (spesso, attaccata potenzialmente in misura strumentale da parte di competitors e organi d’informazione presumibilmente non scevri da interessi di parte), ha permesso per prima, fatto oggettivo e incontestabile, storicamente di capire a dovere l’importanza dell’analisi contabile e peritale dei dati contenuti negli estratti conto.
Proprio gli stessi dati, e la ripetizione è voluta, grazie ai quali gli operatori del mondo del credito hanno compiuto il più grave dei prelievi: quello, spesso illecito, e mai autorizzato da alcun cliente.

domenica 1 luglio 2018

Deutsche Bank non supera gli stress test: è l’unica banca bocciata negli Usa dalla Fed

Sempre più grave la crisi dell’istituto tedesco: da inizio anno il titolo ha perso quasi metà del valore. Al via i licenziamenti per tagliare i costi

WALTER RAUHE

Il quartier generale della banca tedesca Deutsche Bank a Francoforte


La crisi della Deutsche Bank sta assumendo prorzioni sempre più imbarazzanti. Per la seconda volta consecutiva la divisione statunitense del principale istituto di credito tedesco non ha passato gli stress test della Federal Reserve, in questo caso quelli riguardanti la qualità della gestione e i piani di capitale delle principali banche. Mentre 34 dei 35 istituti presi in esame sono stati promossi dalla Fed che ha approvato i dividendi e i buyback proposti, la già travagliata divisione Usa di Deutsche Bank - al centro da anni di una serie di scandali e di strascichi giudiziari - è stata l’unica ad essere stata bocciata.  

L’esame  
Nel loro esame qualitativo i supervisori della Fed hanno riscontrato «ampie carenze» nei sistemi interni di controllo della banca tedesca e nella gestione dati. Una delle conseguenze della bocciatura sarà una limitazione dei profitti che la filiale nord americana potrà rimpatriare a vantaggio della casa madre a Francoforte. Una limitazione piuttosto dolorosa per Deutsche Bank se si considera che da due anni consecutivi i bilanci dell’istituto sono ormai in rosso e che la divisione statunitense rappresentava uno dei rami della banca ancora proficui. Considerata un tempo come una delle principali colonne portanti della solidità, affidabilità e potenza dell’economia e della finanza Made in Germany, Deutsche Bank si è trasformata negli ultimi anni in una sorta di paziente malato ed è diventata sinonimo delle nuove incertezze e crisi d’identità che stanno colpendo la Germania intera e questo, paradossalmente, in un periodo di forte crescita, record occupazionale, surplus di bilancio e benessere. Se a vacillare sono persino la cancelliera Angela Merkel e gli ex campioni del mondo di calcio del ct Joachim Löw - spazzati via dal torneo mondiale in Russia dai sud coreani come si si fosse trattato di una squadra di principianti da oratorio - non stupisce più di tanto se a rischiare di crollare è anche un mito come quello di Deutsche Bank, paragonabile un tempo alla solidità del maggiolino di casa Volkswagen e al prestigio di una scintillante Mercedes-Benz. Tempi passati. Dall’inizio dell’anno il titolo di Deutsche Bank ha perso ben il 41% del suo valore crollando al di sotto della soglia psicologica di 10 euro. Appena un mese fa il Wall Street Journal aveva rivelato che già l’anno scorso la Fed aveva definito come «problematiche» le condizioni delle attività americane di Deutsche Bank e in grado di provocare reazioni sistemiche negative nel settore bancario.  

L’origine dei mali  
Il principale istituto tedesco non si è mai veramente ripreso dalle conseguenze dello scandalo Libor, scoppiato nel 2015 negli Stati Uniti attorno alla manipolazione truffaldina dei tassi di riferimento dei mutui sulle case, uno scandalo costato alla banca oltre 2,5 miliardi fra multe e risarcimenti. Nell’aprile di quest’anno lo sfortunato John Cyran è stato costretto a dimettersi in anticipo dal suo incarico di amministratore delegato lasciando il posto a Christian Sewing.  

La cura dei tagli  
Oltre ad annunciare il licenziamento di oltre 7mila dipendenti, il nuovo Ceo sembra intenzionato a ridurre le attività statunitensi e di trading del gruppo Deutsche Bank per tornare a concentrarsi sul mercato tedesco e su quelli europei. Una strategia che finora non sembra però aver convinto gli analisti.  


Alcuni diritti riservati 

giovedì 12 aprile 2018

EX FUNZIONARIO INGUAIA VENETO BANCA: «SAPEVANO TUTTO»

Dal Gazzettino di Treviso in edicola

Non avrebbero saputo nulla del bidone che sarebbe stato confezionato ai danni della clientela: semplicemente vendevano a raffica per disposizioni di natura squisitamente commerciale. 

E quelle procedure forzate, come quando attribuivano a totali sprovveduti dei profili da investitore consapevole dei rischi del mercato azionario, venivano messe in atto perché c'era bisogno di fare numeri. 
Ma nessuno sapeva le vere ragioni starebbero raccontando i tanti dipendenti di Veneto Banca al pool GdF che ipotizza i reati di falso in bilancio, falso in prospetto, falso in certificazione e truffa. Ma ora le dichiarazioni di un ex funzionario della sede centrale di Montebelluna, che sono parte integrante di due nuova denunce depositate lo scorso 26 aprile in Procura a Treviso dall'avv. Sergio Calvetti a nome di 43 clienti della ex Popolare, potrebbero cambiare radicalmente le carte in tavola.


Secondo l'ex dipendente nel 2013 a tutto il personale di Veneto Banca arrivò infatti una direttiva che assegnava l'incarico di raccogliere più soci azionisti possibili perché la Banca aveva problemi di crediti deteriorati da coprire e quindi aveva la necessità di recuperare denaro per rappresentare un patrimonio netto che rientrasse nei parametri di legge. Quindi non una operazione di collocamento da condurre in porto con il miglior risultato commerciale, ma una vera e propria missione di salvataggio per una Banca la cui stessa esistenza era messa a repentaglio dai crediti a rischio. «Tutti i miei colleghi ne erano a conoscenza» ha spiegato l'ex funzionario.

Dalla direzione centrale, secondo il racconto del dipendente di Veneto Banca, arrivavano in continuazione comunicazioni che dovevamo incentivare il collocamento. In una si legge: «Dobbiamo tornare con forza su questa classe di attivo (le azioni, ndr), non c'è bisogno di dire ancora quanto sia importante per il gruppo e per i soci stessi... ». E c'era una tecnica che secondo il supertestimone sarebbe stata utilizzata quando tanti clienti, alla luce del crollo del valore dei titoli, dai primi mesi del 2014, chiesero di vendere.


L'articolo completo sull'edizione locale del Gazzettino in edicola e nell'edizione digitale, cliccando qui


venerdì 5 gennaio 2018

LE BANCHE? PRIMA ROVINANO I RISPARMIATORI, POI LICENZIANO I PROPRI DIPENDENTI

Non c'è mai fine nella palude del settore bancario: è notizia di queste ultime ore che circa 340mila lavoratori nel settore bancario saranno coinvolti in un collettivo licenziamento , di cui 37mila operativi nel comparto del credito cooperativo.




Così a 40 mila lavoratori già fuori dall'industria "se ne aggiungeranno altri 25 mila, come risultato di accordi sottoscritti tra sindacati e gruppi bancari" secondo le parole di Lando Sileoni, segretario generale della Fabi (Federazione autonoma bancari italiani), riportate da La Stampa.

Entro il 2019 saranno parallelamente chiuse circa 3000 filiali, secondo un’analisi sui piani industriali di cinque dei principali istituti italiani (Intesa, Unicredit, Banco Popolare, Mps e Ubi) diffusa dal primo sindacato di categoria in Italia.




"Queste 65 mila uscite le abbiamo gestite ottenendo anche 18 mila assunzioni di giovani a tempo indeterminato" ha spiegato Sileoni (in foto, sul palco, durante una convention), prospettando però che "una volta esaurito questo bacino di prepensionamenti, quando arriveranno nuove aggregazioni, l’alternativa sarà passare ai licenziamenti".





"Bisogna prevedere nuove figure professionali" ha aggiunto. "Abbiamo fatto le nuove assunzioni con un contratto misto, sia da promotore finanziario che da impiegato di banca. E, con Intesa e Banco Bpm, abbiamo concordato a livello aziendale lo smart working, cioè il lavoro da casa. Questa è una forma alternativa che può dare risultati, se gestita bene".

Gurdando ai prossimi anni, ha aggiunto il sindacalista, "non credo che ci sarà un cambiamento radicale del modo di fare banca. I banchieri sono molto gelosi del loro ruolo. Non saranno mai disponibili a cedere il potere contrattuale che hanno rispetto al quanto e se concedere un certo fido alla clientela. Per mantenere questo rapporto di forza con la clientela non adotteranno mai criteri trasparenti per il metodo del credito"

giovedì 4 gennaio 2018

MPS, VITTORIA STORICA: LA BANCA CONDANNATA PER DERIVATO A FORTE RISCHIO

Il Derivato emesso è stato dichiarato nullo per mancata conoscenza del rischio da parte del cliente, Monte dei Paschi condannato a restituire le somme indebitamente corrisposte. 


È l'ultima e innovativa sentenza del tribunale di Siena in merito a una causa in cui parte offesa è un’azienda viterbese assistita dall’avvocato Massimo Meloni. “Si assiste, finalmente, ad un’inversione di tendenza nella giurisprudenza di merito”, sottolinea il legale. La sentenza si pronuncia su due contratti bancari, uno di conto corrente ed un derivato su mutuo. 

In sintesi la sentenza spiega che la conoscenza del rischio non era prevedibile, ma ipotizzabile da parte del cliente, contraente più debole. In assenza di tale specifica condizione il derivato è nullo.


LEGGI ANCHE: Banche, Brunetta: 


La sentenza non risulta avere precedenti. Un  orientamento che comporterà grandi benefici per tutti i clienti che hanno, improvvisamente, stipulato derivati senza conoscerne i rischi derivanti.

Il derivato è stato dichiarato nullo e la Banca Monte dei Paschi di Siena spa condannata a restituire le somme indebitamente corrisposte in funzione del derivato

LEGGI ANCHE:  SDL CENTROSTUDI:


Più o meno come le operazioni di Banca di Vicenza e Veneto Banca, tanto note alle cronache.

Vuoi un mutuo? Un fido? Comprami un derivato. Sui quali la banca guadagnava senza ritegno.

Le banche facevano firmare all’ignaro cliente tale dichiarazione insieme al derivato in modo che essendosi egli qualificato come ‘esperto’, non dovevano porre in essere tante cautele previste dalla legge.


mercoledì 3 gennaio 2018

OGGI PARTE LA MIFID 2: PERCHÈ È IMPORTANTE PER IL RISPARMIATORE?

Stop ai costi occulti dei fondi. Oggi parte Mifid 2, una direttiva dell'Unione Europea che impine più tutele al risparmio e  chiede maggiore trasparenza alle banche, sgr e sim. Un prospetto semplificato informerà sui costi dei gestori e sui rendimenti (o perdite) futuri. Più chiare le commissioni di performance



Quanto vi costa davvero un fondo o un investimento finanziario? Quanto vi rende? Quante commissioni di gestione pagate effettivamente? Quanto si paga per entrare e uscire da un investimento? Quanto pesano le commissioni di performance? E siete davvero certi che l’investimento sia adeguato alla vostra competenza finanziaria, sia davvero nel vostro interesse, che siete davvero pronti a far fronte alle eventuali perdite? 

Finora tutte queste domande potevano restare senza una risposta puntuale; da mercoledì 3 gennaio, con l’entrata in vigore della nuova direttiva europea sui servizi finanziari «Mifid 2», le risposte che il cliente-investitore otterrà dovrebbero essere più chiare, più esaustive, più trasparenti. Per esempio, sarà ben specificato che solo per entrare e uscire da un investimento si pagano commissioni perfino del 5% del valore.

Ne parla oggi il Corriere 

La Mifid 2 porterà un'altra rivoluzione. Prima di essere commercializzati e quindi sottoposti alla clientela, i prodotti finanziari dovranno essere analizzati ed approvati da chi li introduce. Chi li distribuisce dovrà a sua volta adeguare la pubblicizzazione del prodotto al tipo di mercato a cui è destinato. Non solo. L'investitore dovrà essere sottoposto ad una «valutazione di adeguatezza», verranno verificate le sue conoscenze e rendicontate eventuali esperienze pregresse sul servizio richiesto; verrà sottoposta ad analisi la sua situazione finanziaria per appurare che sia in grado di sostenere eventuali perdite; verranno valutati i suoi obiettivi per meglio comprendere quanto sia tollerante al rischio.

Approfondimenti su il Giornale  e su businessinsider 

giovedì 28 dicembre 2017

I TITOLI TOSSICI DELLE BANCHE UE: UN RISCHIO DA 6.800 MILIARDI

6.800 miliardi di titoli illiquidi nei bilanci delle banche UE. 3/4 di questi in Francia e Germania. I titoli illiquidi sono quelli che non hanno un mercato di riferimento e dunque non hanno un prezzo certo al quale iscriverli in bilancio. Come vengono definiti i valori di bilancio? 


Messi insieme formano una montagna, nei bilanci delle banche europee, che vale 6.800 miliardi di euro tra attivi e passivi. Si tratta di 12 volte l’ammontare dei crediti in sofferenza. Eppure di titoli illiquidi (quelli che una volta venivano chiamati tossici e che sono catalogati in bilancio al «Livello 2» e «Livello 3») si parla molto meno, sebbene rappresentino un rischio altrettanto importante. 

Ne parla oggi Il Sole 24 Ore in un articolo dal titolo: Banche Ue e titoli tossici, un rischio da 6.800 miliardi


La Banca d’Italia, in uno studio che sarà pubblicato oggi, lo certifica nero su bianco: non solo i titoli illiquidi sono opachi e complessi, non solo potrebbero essere soggetti a shock di prezzo, ma soprattutto rischiano di sconquassare i bilanci delle banche che li detengono

Sulle "sofferenze bancarie" peraltro SDL Centrostudi ha pubblicato negli ultimi due anni numerosi avvertimenti ai propri clienti e correntisti. 



Nelle ultime settimane uno dei temi più importanti è stato quello delle sofferenze bancarie, in particolare in NPL, noti anche con il nome di crediti deteriorati. La BCE, per tentare di regolamentarne la presenza all’interno dei bilanci bancari, aveva recentemente avanzato una proposta che richiederebbe ai maggiori istituti dell’Eurozona di svalutare integralmente entro due anni le nuove sofferenze non assistite da garanzie (per quelle garantite da immobili, il termine verrebbe fissato a sette anni). Continua la lettura…